15 Dic TEST PSICOLOGICI: FASCINO O AVVERSIONE?
I test psicologici fanno parte del repertorio di strumenti diagnostici di cui un professionista della salute mentale può avvalersi. Il loro impiego può essere essenziale nei contesti peritali e funzionale nel monitoraggio di un percorso psicoterapeutico. Dunque, farne uso per la mera formulazione di una diagnosi può risultare sterile, poichè i numeri e le statistiche non fanno dell’individuo la sua essenza.
Nel corso dell’eterna formazione di uno psicoterapeuta, infatti, più volte viene profusa la credenza che sinteticamente e ironicamente può essere tradotta con la formula “una batteria di test non si nega a nessuno”. Ora, è vero che per scattare una fotografia della condizione di partenza di un paziente, i risultati dei test possono fornire una mappatura che può quantificare risorse e ostacoli nell’hic et nunc, disagi e competenze iniziali. Ma è altrettanto vero che, come dico io, i test possono essere considerati una rondine e una rondine non fa primavera. Per cui, gli strumenti psicometrici possono offrire un valido ausilio nella formulazione delle ipotesi diagnostica ma possono anche essere utilizzati con uno scopo più funzionale all’intervento: dare un feedback scientifico al paziente.
Il momento del feedback, per me, è, infatti, molto importante e lo valorizzo attraverso una puntuale spiegazione dei risultati, variabile per variabile, scala per scala. La consapevolezza di essere in possesso di risorse e la chiarezza dei margini delle difficoltà che si vivono, infatti, da un lato inducono il paziente a ridimensionare la percezione della gravità dei propri sintomi noti e dall’altro favoriscono lo sviluppo dell’alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta.
Proprio grazie al feedback al paziente è possibile verificare quali evidenze effettivamente egli riconosce essere attendibile e quali meno. Attraverso esempi e contestualizzazioni, infatti, il paziente e il terapeuta possono estrapolare i dati considerati a sostegno di quanto emerso nei test e riconoscere quelli più salienti e a partire dai quali costruire gli obiettivi diagnostici. È ovvio, poi, che nella condivisione dei risultati si tenga conto dell’età anagrafica del paziente.
La standardizzazione dei valori numerici dei test rende d’obbligo, però, un’analisi qualitativa dei risultati, al fine di farne un uso di cui sopra. In questo modo è possibile costruire degli obiettivi commisurati all’ambiente contestuale del paziente e a esso stesso, in maniera taylor made.
In questo modo il test funge da baseline in fase iniziale, per tornare a essere utile a fine percorso terapeutico, quando, una volta somministrato nuovamente, offre risultati nuovi da confrontare con quelli emersi durante la fase iniziale della terapia.
A tal proposito, molti colleghi usano somministrare le batterie testologiche in un unico shot temporale, che al massimo si può distribuire in maniera funzionale ai tempi di ciascuna seduta. Personalmente, preferisco privilegiare il confronto narrativo, soprattutto nel corso delle prime sedute, lasciando uno spazio marginale alla compilazione dei test, che possono, invece, essere somministrati un poco per volta, senza per questo alterarne la funzionalità e l’utilità. In questo modo, una parte di durata maggiore delle sedute viene dedicata al dialogo e la restante ai test.
Dunque, anche se l’approccio cognitivo- comportamentale, il mio, non ama particolarmente i test e i numeri da essi prodotti, contrariamente ai colleghi con orientamento dinamico, l’estrapolazione del dato quantitativo e un uso funzionale delle batterie psicodiagnostiche fanno sì che il lavoro del terapeuta abbia una nitida rotta da seguire è il paziente possa avere consapevolezza anche dei temi sui quali sta lavorando.