03 Gen IL BLOCCO DELLO STUDENTE
Chi l’ha detto che soltanto gli scrittori possono avere un momento di stallo in cui la creatività e lo slancio produttivo possono subire una crisi e un arresto?
Ebbene, anche molti studenti possono versare in questa stessa condizione e le statistiche recenti ce lo confermano ampiamente!
Vediamo allora cosa succede quando l’Università diventa un calvario e scopriamo insieme le opzioni possibili per aggredire gli ostacoli che hanno prodotto l’effetto indesiderato. Iniziamo la nostra analisi con una precisazione d’obbligo: molti studenti smettono di studiare senza dirselo onestamente. Che tradotto significa: alla Facoltà x dell’Università Y risulta essere iscritto lo studente Z, benchè quest’ultimo non dia esami da tempo immemore.
Smettere di studiare e lasciare l’Università possono, dunque, sembrare due azioni distinte, di cui la prima figlia di una scelta il più delle volte inconsapevole e la seconda priva della formalità sancita dalla cosiddetta “rinuncia agli studi”.
Dunque, alla luce di ciò, potremmo immaginare uno “spettro accademico” a due poli, in cui all’estremo destro poniamo lo studente iscritto all’anno in corso e in regola con gli esami, mentre al polo opposto lo studente che non sostiene esami da tanti anni, fuori corso e con le tasse in morosità. Se potessimo osservare la popolazione che si colloca all’interno dei due estremi, noteremmo che si tratta di un insieme ibrido di studenti che, con gradualità, fluttua da un polo all’altro, il più delle volte da quello destro a quello sinistro.
Il dato triste che ne deriva è che l’Ente formativo, nel frattempo, nonostante si suppone abbia gli strumenti per monitorare il suo portfolio di studenti, a parte il sollecito di pagamento delle tasse, il più delle volte non esprime alcuna manifestazione d’interesse rivolta a chi si trova in una condizione inconsueta.
Questo silenzioso disinteresse è un elemento tutt’altro che trascurabile, perchè il malessere che governa le scelte di uno studente trova terreno fertile anche nell’abbandono emotivo che caratterizza la maggior parte delle realtà universitarie italiane. Analogamente, il silenzio dei docenti che all’appello non registrano nessun “presente” dallo studente iscritto all’esame diventa complice della rinuncia inconsapevole di chi diserta gli esami e gli appelli.
Le ragioni per cui le Università decidono di trascurare questo fenomeno di drop out sono molteplici ma estranei all’argomento qui affrontato.
Quello che a noi interessa è esaminare, infatti, è ciò che spinge lo studente a prendere la deriva universitaria. I trigger innescanti possono essere molteplici:
- Pentimento per la scelta dell’indirizzo intrapreso;
- Risentimento per i voti precedentemente collezionati;
- Timore di fallire;
- Ansia da prestazione;
- Paura di produrre giudizi negativi ad altri (famiglia, insegnanti, amici, ecc.);
- Svogliatezza;
- Perdita d’interesse;
- Bisogno di lavorare.
Questi concetti sono molto risonanti per chi li mastica ogni giorno, sebbene, in camera caritatis, questi stessi deterrenti hanno un nome molto più doloroso da pronunciare: alibi.
Si può, infatti, essere legittimati a cambiare idea, smettere di gradire qualcosa che in un altro momento storico era appetibile.
I voti registrati in passato non determinano i voti degli esami del futuro. Inoltre, cosa che sarebbe dovuta essere stata appresa alle scuole Elementari, il voto è un numero che descrive il valore di una performance, talvolta giudicata in maniera, oltretutto soggettiva e non può qualificare un essere umano.
Il timore di fallire a un esame, la famosa “scena muta“, preclude allo studente la possibilità di cimentarsi nella lotta alla sopravvivenza della propria autostima.
Di seguito sono elencati i pensieri funzionali di cui lo studente in crisi è sprovvisto per poter affrontare serenamente le vicissitudini universitarie:
a. Posso fallire all’esame con la stessa possibilità di poterlo superare;
b. Posso accettare il fallimento;
c. Essere rimandato a un esame non significa che ho fallito ma che non sono adeguatamente preparato per superarlo;
d. Più m’impegno, meno sono le probabilità di essere bocciato;
e. E’ più grave non studiare e non sostenere gli esami che trastullarmi e rinviare e fingere e mentire;
f. Le persone che mi amano non cambiano quello che provano per me in base al mio rendimento scolastico;
g. Posso ammettere a me stessa che non ho più voglia di studiare e preferisco fare altro;
h. Il tempo è, insieme alla salute, ciò che di più prezioso e irrecuperabile abbiamo;
i. Lavorare non preclude la possibilità di studiare, contemporaneamente.
Il motivo per cui questi pensieri sono assenti o non concordano con lo stato emotivo del malcapitato possono essere altrettanto molteplici e tutti meritevoli di essere approfonditi e sviscerati in apposito setting con personale qualificato. Purtroppo, però, il timore di scoprire, o di svelare, quelle verità che possono essere percepite come scomode supera di gran lunga l’intensità del dolore prodotto dagli scomodi e immancabili quesiti “Come va con l’Università?”, “Stai ancora studiando?”.
Quando assisto a scene pietose di questo calibro, io personalmente mi rifugio dietro il detto popolare “Tutti hanno le proprie battaglie interiori da combattere, sii gentile”.
Ammetto, però, che poi tifo per quanti arrangiano le giustificazioni di cui sopra, affinchè trovino l’ardire di dire “Ci sto lavorando nonostante l’effetto sortito da domande di questo tipo”.
E per questa ragione, ogni volta che uno dei miei pazienti inverte la tendenza dello spettro di cui sopra, io ne sono molto felice.