20 Apr LA BONTA’ DEI SINTOMI PIU’ GRAVI
Quando all’Università avevo sentito il prof di Psicopatologia sostenere che i casi più facili sono quelli con i sintomi più gravi, rimasi basita.
Non ero pronta a cogliere il vero senso di ciò che il docente intendeva, ma oggi sottoscrivo pienamente ogni singola sillaba ascoltata tra i banchi accademici.
Vediamo se convenite con me.
Allora, immaginiamo di avere un virus che non si manifesta, che contagia chi vi sta accanto e la cui pericolosità aumenta progressivamente. Come facciamo a debellarlo tempestivamente?
Pensiamo adesso a un disturbo che attira facilmente l’attenzione, perchè ha dei sintomi prepotenti e difficilmente ignorabili. Per quanto tempo potremmo fingere che non ci sia qualcosa su cui indagare?
Ecco, questi due interrogativi ci possono aiutare a comprendere come le acque chete possono nascondere una minaccia e un gran casino, invece, può favorire un intervento in tempo utile per far rientrare la situazione nel minor tempo possibile.
Molti genitori, tanti coniugi, giusto per fare qualche esempio molto diffuso, spesso si difendono gratuitamente dicendo “Ma non mi ero accorto di nulla”, come se la mancata denuncia di un problema “in tempi non sospetti” fosse una colpa da scongiurare.
La vera attenuante, in realtà, è che risulta molto più difficile cogliere quei segnali non manifesti che invece desterebbero facilmente preoccupazione se non fossero silenziosi, mascherati e sottili.
Pensiamo a un bambino che sta soffrendo perchè i genitori litigano spesso e “male”. Se il malessere si palesa attraverso enuresi notturna, inappetenza, capricci e insonnia, con buona probabilità i genitori noteranno il disagio più velocemente che se i sintomi fossero un mal di pancia taciuto, il pianto soffocato sul cuscino, disegni nascosti, bugie.
Come porsi allora nei confronti di chi ha una tendenza a esternalizzare in maniera limitata?
La risposta, severa ma giusta, è: “Nello stesso modo in cui bisogna attivarsi con cui non interiorizza!”.
Il problema, infatti, va prevenuto a monte, riconoscendo una grande importanza alla conoscenza vera e profonda delle persone che ci stanno a cuore e di cui vogliamo prenderci cura.
Per poter sostenere di avere una buona conoscenza di un individuo, bisogna assicurarsi di poter vantare di una sana relazione di fiducia, legittimata da quel confronto verbale che non necessita della lettura della situazione ma che offre a chiare lettere la formulazione di una richiesta di aiuto. Allo stesso tempo, una buona conoscenza implica anche la notorietà del funzionamento di chi amiamo, figlia di osservazione pregressa, di insegnamenti precedentemente impartiti (Se succede X, me lo dice in modo Y).
Per notare, infatti, il cambiamento sintomatico di un’abitudine altrui occorre conoscere quella consueta.
Ora, questo non vuol dire che osservare sintomi di malessere estremi, come quelli autolesionistici (tagliarsi), auto-sabotanti (ingozzarsi), certamente più facilmente rilevabili, debbano rassicurare circa la facilità della loro gestione.
Se da un lato, infatti, l’intensità del disagio è molto grave, dall’altro, tuttavia, la bontà di queste manifestazioni estreme è rintracciabile nella costrizione a notare che qualcosa non va in modo da agire tempestivamente e di conseguenza.